È uno spettacolo sull’assenza: l’assenza di un padre, l’assenza di un corpo cui dare sepoltura e l’assenza di 30.000 persone scomparse. L’assenza però genera il suo contrario: resistenza, presenza e identità. L’assenza è il punto di partenza per costruire un’opera che contenga sia un messaggio personale che un discorso storico.
Regia: Julia Varley (Odin Teatret – Danimarca)
Attrice: Ana Woolf (Argentina)
Drammaturgia: Julia Varley
Testo: Ana Woolf, documenti storici e testimonianze
Spettacolo dichiarato di “Interesse Culturale” e sostenuto da:
- Amnesty International
- Secretaría de Cultura de la Presidencia de la Nación
- Dirección General de Asuntos Culturales de la Cancillería de la República Argentina
- Nordisk Teaterlaboratorium (Danimarca)
- Magdalena 2a Generación (Red Latinoamericana de Mujeres en el Arte Contemporáneo), Argentina
Ideali e ilussioni
Julia Varley
“Si dovrà cantare nei tempi oscuri?
Sì, si dovrà cantare dei tempi oscuri”.
(Bertolt Brecht)
Negli anni Settanta molti argentini venivano in Italia, dove io vivevo e studiavo all’università. Condividevamo il linguaggio dell’attivismo politico e quello dei giovani militante che volevano cambiare il mondo e credevano nel diritto alla giustizia e alla felicità e in un essere umano nuovo. Ci erano famigliari ore e ore di riunioni, la distribuzione di volantini e la vendita di giornali, i dibattiti sindacali e le occupazioni di scuole e fabbriche. Sentivamo che il nostro impegno politico era estremamente serio ed eravamo d’accordo nel ritenere che i problemi personali, famigliari e amicali
dovessero venire dopo.
Tutti noi, tanto italiani come argentini, che lavoravamo nel campo del teatro, dell’arte e della cultura, consideravamo la nostra attività come una parte integrante della lotta sociale e di classe. Parlavamo di teatro e politica, di solidarietà internazionale, di Stanislavskij, di Grotowski e di agit-prop. Non parlavamo molto di quello che stava succedendo nel loro paese di origine. Io sapevo solo per loro era molto pericoloso tornare e che farlo era il loro più grande e al contempo impossibile desiderio. A volte il loro teatro rifletteva la realtà dalla quale erano fuggiti. Gli spettatori italiani reagivano contro le scene di tortura quando venivano presentate in una forma troppo diretta e arrivavano fino al punto di interrompere lo spettacolo.
È molto difficile oggi negli anni Novanta, vivendo nella comoda, ricca e democratica Danimarca, dirigere un’opera teatrale sul tema dei desaparecidos e leggere documenti e libri che rivelano fatti e cifre degli anni della dittatura militare in Argentina. La realtà è troppo terribile per essere assimilata. È insopportabile ascoltare di torture psichiche e fisiche inferte a bambini, adolescente, lavoratori, studenti, famiglie, amici e quelle che casualmente coinvolgevano persone che passavano di là. È insopportabile ascoltare le storie degli assassinii. E posso immaginare che per coloro che hanno vissuto questo periodo di terrore, l’esperienza diventi impossibile da raccontare.
Come posso permettermi di presentare questa realtà a teatro? Come posso parlare di Questa esperienza che appartiene ad altri attraverso un linguaggio di simboli e segni? Come può il dolore essere messo in scena e “rappresentato” senza risultare irrispettoso e sgradevole? Come può il teatro essere tanto crudele quanto la vita reale? Queste domande mi ossessionavano durante la prima parte del lavoro con Ana Woolf, mentre le “Madres de Plaza de Mayo” continuavano a dirmi di non parlare di morte e funerali, ma di vita e di speranza future. Me le immaginavo dirmi, una e più volte, che benché si possano perdere le illusioni, gli ideali rimangono e con loro la necessità di lottare per la giustizia. Ana Woolf, l’attrice argentina che mi ha proposto questo spettacolo, ai tempi della dittatura militare e era una bambina e la sua famiglia non ha avuto bisogno di lasciare il proprio paese. Ana ha sperimentato e giudicato gli eventi attraverso gli occhi di una bambina di 9 anni. Non sapeva che le sue domande senza risposta e le sue emozioni confuse, che la sua sorpresa e la sua paura erano condivise dalle persone grandi che le stavano intorno.
Le parole autobiografiche e il dolore reale causate dalla recente perdita del padre sono state la soluzione drammaturgica che ha permesso di raccontare la storia che ha bisogno di essere raccontata.
Malgrado mai nessuna parola potrà mai compensare l’orrore e la sofferenza che ha segnato molte generazioni di argentini.
Stavo camminando per le strade di Buenos Aires nel 1987. Un amico mi raccontava quanto fosse strano stare fuori senza dover immaginare una storia su dove stava andando e perché, con un’agenda nella sua tasca e senza dover guardare davanti e dietro per controllare che la strada fosse sicura. La paura più profonda comunque continuava a restare. Come è possibile per tanta gente torturare e uccidere altri essere umani, tra i quali vi erano anche madri incinta e bambini? Come è possibile aver collaborato e restare in silenzio? Guardi il tuo vicino e non sai se è un torturatore. Guardi gli occhi del tuo vicino senza sapere se appartengono a uno di questi genitori. Guardi le acque scure del Río de la Plata y vedi giovani volti apparire tra le onde.
Con Ana ho incontrato una giovane generazione que ha scelto di lottare contro l’oblio, che vuole assumersi la responsabilità del passato e sapere da dove viene. Ana ha trasformato Juan, il protagonista di Semi di memoria, in un membro della mia famiglia.
Sento il bisogno di pronunciare il suo nome e di ricordarlo perché possa vivere la vita che gli è stata strappata, come a tanti altri.
Il teatro può aiutare a piantare semi de memoria nella terra perché nuova vita possa crescere dall’assenza, perché i vecchi ideali e le illusioni possano diventare fiori delicati che colorano il nostro futuro.
Curriculum dello spettacolo:
Semi di memoria è stato presentato in:
Danimarca, Serbia, Paesi Bassi, Italia, Germania, Belgio, Bosnia,
Egitto, Nuova Zelanda, Cuba, Brasile, Argentina, Colombia, Perù,
Malesia, India, Ungheria, Taiwan, Portogallo.