Opera in un atto
Prima esecuzione a Roma e a Rieti
Libretto di Petr Kien
Musica di Viktor Ullmann
Interpreti: Mattia Rossi, Spartak Sharikadze, Carlo Feola,
Nicola Straniero, Eduardo Niave, Valentina Gargano,
Mariam Suleiman, Ekaterine Buachidze
Roma Tre Orchestra
Sieva Borzak, direttore
Cesare Scarton, regia Michele Della Cioppa, scene
Flaviano Pizzardi, motion graphics
Anna Biagiotti, costumi Andrea Tocchio, luci
Produzione Fondazione Flavio Vespasiano
Progetto Speciale Ministero della Cultura
In collaborazione con il Progetto “Fabbrica” – Young Artist Program
del Teatro dell’Opera di Roma, con la Fondazione Alberto Sordi per i giovani e con la Fondazione Roma Tre Teatro Palladium
TRAMA
Nel Prologo l’Altoparlante presenta i vari personaggi che compariranno nel corso dell’azione, secondo un modello già utilizzato da Berg per la sua Lulu. Nel primo quadro Arlecchino parla della sua misera vita, priva di felicità e amore. La Morte gli si avvicina e assieme, seduti su una panca, si rammaricano della loro cupa esistenza. Arlecchino vorrebbe farla finita, ma la Morte gli spiega quanto più tragica sia la sua sorte in un mondo dove gli uomini non rispettano più nemmeno lei stessa. Appare il Tamburo che proclama l’editto imperiale che obbliga tutti, maschi e femmine, bambini e adulti a imbracciare le armi e a combattere fino alla distruzione definitiva del nemico. La Morte, ritenendosi offesa e privata del suo ruolo, proclama di voler abdicare al suo compito: pertanto, nessuno da quel momento in poi potrà più morire. Nel secondo quadro l’Imperatore Overall, chiuso nella sua reggia, impartisce ordini e controlla le operazioni di guerra parlando con un Altoparlante che lo informa sugli eventi: con sgomento si avvede che gli attentatori sono ancora in vita ad impiccagione avvenuta. L’Altoparlante riferisce infatti che è scoppiata una strana malattia che non permette di morire. L’Imperatore, timoroso di perdere il suo potere, cerca di capovolgere la situazione a suo favore e annuncia di offrire ai propri soldati il dono della vita eterna. Nel terzo quadro un Soldato e Bubikopf, una giovane donna con i capelli alla maschietta, si affrontano come nemici ma, all’improvviso, si rendono conto di essere incapaci di uccidersi l’un l’altra: il loro odio si trasforma in amore e nell’evocazione di luoghi meravigliosi dove essere felici. Nel quarto quadro Overall viene informato che nel paese regna il caos tra i sudditi costretti a restare in un limbo tra vita e morte. L’Imperatore implora la Morte di riprendere la sua funzione; quest’ultima accondiscende, a patto che lui stesso muoia per primo. L’Imperatore accetta e la Morte gli ingiunge di uccidersi. Nel Finale, tutti i personaggi enunciano la morale dell’opera che diventa il sacro comandamento di non nominare il grande nome della Morte invano.
L’IMPERATORE DI ATLANTIDE
L’opera Der Kaiser von Atlantis oder Der Tod dankt ab ovvero L’imperatore di Atlantide o L’abdicazione della morte, leggenda in quattro scene, è stata composta da Viktor Ullmann su libretto di Petr Kien nel periodo del loro internamento nel campo di concentramento di Theresienstadt (Terezín), che nelle intenzioni propagandistiche dei nazisti doveva fungere da vetrina con cui mascherare l’orrore del genocidio ingannando non solo le vittime con l’illusione della salvezza ma anche gli stessi organismi internazionali, mentre in realtà non era che una stazione di transito per Auschwitz. La possibilità di una vita artistica a Theresienstadt spinse Ullmann a elaborare il progetto di un’opera la cui stesura ebbe luogo nella seconda metà del 1943; nel marzo 1944 si tennero le prove con il direttore d’orchestra Rafael Schächter, in vista della sua rappresentazione, ma lo spettacolo non andò mai in scena a causa della censura nazista che ritenne che nel personaggio principale, l’imperatore Overall (anglismo per Über Alles), fosse adombrata la satira di un sovrano totalitarista. Quando il 16 ottobre 1944 Ullmann e Kien furono trasferiti ad Auschwitz, dove troveranno entrambi la morte, il compositore lasciò il manoscritto nelle mani di Emil Utiz, bibliotecario del campo, con la preghiera di farlo avere a Hans Gunther Adler. Entrambi sopravvissero, e così fu possibile arrivare a un’esecuzione dell’opera solo 32 anni dopo la sua creazione ad Amsterdam nel 1975.
Le particolari e drammatiche condizioni di vita di Theresienstadt costrinsero Ullmann a impiegare un organico ridotto costituito da sette cantanti e da un ensemble di quindici strumentisti, tra cui alcuni appartenenti al mondo popolare (banjo, sax, chitarra, harmonium); ciononostante si intuisce la mano dell’esperto autore teatrale. Recitativi, arie, duetti e vari numeri di danza si susseguono in uno stile eclettico: echi di Weill, della musica da cafè-concerto e ritmi americani (blues, shimmy, fox-trot, ragtime) si avvicendano a citazioni dei grandi maestri del passato, alla sinfonia Asrael di Josef Suk, al corale luterano Ein feste Burg ist unser Gott, all’inno nazionale tedesco Deutschland über alles trasformato in modo minore, passando per le avanguardie novecentesche, rappresentate da Schönberg, Hindemith e Berg. Nonostante il contesto di orrore e sofferenza in cui venne composta, la partitura possiede una singolare levità e trasparenza che ne fa il risultato più importante della produzione musicale “concentrazionaria” (ossia composta dall’uomo in condizioni di prigionia).
Attraverso quattro quadri, uniti senza soluzione di continuità da intermezzi strumentali, l’opera mette in scena tre grandi tematiche: la guerra, il male, il potere. L’imperatore Overall ha proclamato una guerra totale di tutti contro tutti. Ma la Morte, sentendosi strumentalizzata, rifiuta di fare il suo lavoro: decide di non far morire più nessuno, né in guerra, né per malattia, come rende noto l’Altoparlante. La Morte, rinunciando a svolgere il suo compito, esplicita l’assurdità della guerra e spinge l’imperatore a sottoscrivere un patto. Solo se si immolerà per primo, la Morte riprenderà il suo compito e potranno ricominciare a morire tutti gli altri esseri umani. L’imperatore, nella sua follia distruttiva, accetta; ma, a questo punto, la guerra è finita. L’imperatore è morto, la Morte trionfa e libera l’umanità dal male assoluto.
Sette sono i personaggi che compongono questo universo narrativo, dove Atlantide (allegoria del presente mutuata dal mitologico continente sprofondato negli abissi per l’arroganza dei suoi abitanti, che secondo la fede nazista era il luogo di origine della razza ariana) è governata dall’imperatore Overall, dittatore feroce, servito con zelo dal Tamburo (Trommler) e dall’Altoparlante (Lautsprecher), suoi strumenti di propaganda. Essi incarnano la triade del male e sono una provocatoria allusione a Hitler, Goebbels e Goering, mentre l’altra triade di personaggi, Arlecchino, il Soldato, la Ragazza (chiamata con il nome di Bubikopf per la corta e scura capigliatura à la garçonne, opposta alle lunghe trecce bionde ariane) rappresentano il mondo smarrito delle emozioni umane. Ad Arlecchino, maschera della commedia dell’arte, ma anche incarnazione della vita, sono affidate le riflessioni sulla caducità delle cose e sulla felicità perduta e a causa della spersonalizzazione operata dalla maschera con la conseguente cancellazione dell’individualità, può rappresentare gli internati a Theresienstadt. Il Soldato e la Ragazza dovrebbero combattersi a vicenda, ma tra loro nasce l’amore: la guerra è potente e devastante ma non riesce a impedire ai sentimenti di manifestarsi. Il potere assoluto, incarnato dall’imperatore, è destinato a dissolversi, costretto a scendere a patti con un’entità superiore, la Morte. Perché il corso naturale delle cose possa riprendere, sarà lui a dover essere eliminato per primo. Nel corale finale, basato su quello di Martin Lutero, reso celebre dalla Cantata BWV 80 e dal Choralbearbeitung BWV 720 di J. S. Bach e già utilizzato da altri compositori ebrei come Mendelssohn, Meyerbeer e Offenbach, il personaggio della Morte riafferma l’ordine universale sconvolto dal male, lanciando la sua ultima sfida a tutti i regimi totalitari. Paradossalmente, solo con la presenza della Morte, si può ipotizzare quella della Vita e la ripresa del ciclo naturale delle vicende umane, che Overall aveva alterato con la sua smania di potere assoluto e totale, anche se risuonano profetiche sul destino dell’Umanità le sue ultime parole, in risposta all’affermazione della Morte circa la definitiva conclusione della guerra: “Non c’è più guerra dici con fierezza? Per quanto tempo ancora? Smorzato è il fuoco, non è spento! Di nuovo avvamperà, l’omicidio infurierà…”. A proposito di questa aria finale di Overall, Ullmann aveva inizialmente utilizzato i versi di Felix Braum da lui inseriti in una precedente composizione, la Symphonische Phantasie, composta nel 1925 e perduta durante la guerra. In quei versi riecheggiava il pensiero catartico della dottrina antroposofica, della quale Ullmann era seguace. Successivamente, come è documentato dal manoscritto dell’opera, il compositore cancellò con rapidi tratti di penna il testo di Braum, inserendo quello originale del librettista dell’opera, Petr Kien, improntato a un cupo pessimismo.
BIOGRAFIA DI VIKTOR ULLMANN
Viktor Ullmann, compositore, pianista, maestro di coro e critico musicale, nasce a Teschen (oggi Repubblica Ceca) nel 1898 da un ufficiale dell’esercito austro-ungarico ebreo convertitosi al cattolicesimo. Studia a Vienna con Arnold Schönberg, il quale nel 1919 gli troverà un lavoro come assistente di Alexander Zemlinsky al Nuovo Teatro Tedesco di Praga. Nel 1929 lascia Praga per Aussig dove diventa primo direttore, mettendo in scena opere d’avanguardia come Ariadne auf Nasso di Strauss e Jonny spielt auf di Křenek, opera considerata dai nazisti un esempio di arte degenerata. Nonostante il successo si sposta a Zurigo, dove trova impiego come Kappelmeister, lavoro che non lo soddisfa. In questo periodo di crisi inizia a conoscere il movimento antroposofico di Rudolf Steiner. Nel 1931 lascia la carriera artistica per dirigere una libreria steineriana a Stoccarda. L’avvento di Hitler e l’emanazione delle leggi di Norimberga lo costringono a lasciare la Germania per Praga dove comincia l’attività di critico per la rivista “Der Auftakt” e per la Radio Ceca. Torna allo studio della composizione con Haba, padre della musica microtonale, e compone l’opera La caduta dell’Anticristo, su libretto del poeta svizzero Albert Steffen, che non vedrà mai le scene. In questi anni praghesi le sue condizioni economiche non sono buone, e la ricerca di denaro gli impedisce di dedicarsi anima e corpo alla composizione. Con l’instaurazione del Protettorato di Boemia e Moravia cerca ripetutamente di emigrare non riuscendoci, finché l’8 settembre 1942 viene deportato a Terezín, insieme con la sua terza moglie. Lì ritrova la sua seconda moglie e il figlio Max, e anche la sua vena creativa. Nei due anni di permanenza nel ghetto compone più di venti opere (7 sonate per pianoforte, 1 quartetto, 1 sinfonia, svariati Lieder, e un’opera, appunto Der Kaiser von Atlantis). Le motivazioni di questa esplosione le fornisce lui stesso: “Devo sottolineare che Terezín è servita a stimolare, non a impedire, le mie attività musicali, che in nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere; che il nostro rispetto per l’Arte era commisurato alla nostra voglia di vivere. E io sono convinto che tutti coloro, nella vita come nell’arte, che lottano per imporre un ordine al Caos, saranno d’accordo con me”. Tra settembre e ottobre 1944 ebbero luogo deportazioni di massa ad Auschwitz. Viktor Ullmann venne trasferito il 16 ottobre 1944 e trovò la morte nelle camere a gas, probabilmente il 18 ottobre.